Riporto il testo di un articolo da me già pubblicato, ovviamente in parte superato dalla sentenza d'appello che ha assolto Stefano Binda. Si attende ora la Cassazione.
Al termine, alcune considerazioni abbozzate, ancora non confluite in articolo.
Omicidio Lidia Macchi: un altro errore giudiziario?
Risolvere un caso vecchio di decenni è decisamente impresa ardua. I testimoni non ricordano più con precisione, muoiono, le prove spariscono misteriosamente o vengono deliberatamente fatte distruggere, i luoghi mutano, la comune percezione dei fatti si modifica, insomma diventa tutto terribilmente difficile. Ma certi orribili fatti di cronaca devono trovare una fine, anche per dar pace alle famiglie delle vittime.
Un caso che ha fatto clamore sì, ma non troppo, è stato quello della morte della studentessa di “Comunione e Liberazione” Lidia Macchi, avvenuta la sera del 5 gennaio 1987 in località Sass Pinin”, vicino a Cittiglio, in provincia di Varese, a causa di 29 coltellate.
Lo scorso 24 aprile, la Corte d’Assise di Varese, presieduta dal giudice Orazio Muscato ha condannato all’ergastolo il cinquantunenne di Brebbia Stefano Binda che quella sera “dopo aver incontrato Lidia all’ospedale di Cittiglio ed essersi accompagnato all’amica nella sua auto, raggiungeva con lei la zona boscosa “Sass Pinin” dove, dopo la consumazione di un rapporto sessuale ottenuto con minaccia e costrizione, la aggrediva colpendola reiteratamente alla gola, al collo e al torace e, successivamente, mentre la ragazza tentava la fuga, alla coscia sinistra e alla zona dorsale, con una serie di coltellate (29) tali da cagionare alla vittima numerose lesioni che ne determinavano la morte per anemia e asfissia dopo penosa agonia”.
Gli vengono addebitate anche le aggravanti ex art. 62, nn. 1,2,4,5 cp, per aver agito, come detto in sentenza:
1) per motivi abbietti e futili, consistenti nell’intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte; intento punitivo pertanto del tutto ingiustificabile e sproporzionato agli occhi della comunità.
2) per procurarsi l’impunità dal reato di violenza sessuale commesso su Lidia, costretta ad un rapporto sessuale completo contro la sua volontà
3) con crudeltà verso le persone, per le modalità efferate con cui infliggeva a Lidia, su tutto il dorso, raffiche di colpi a gruppi di tre che “straziavano le carni” della vittima, abbandonata agonizzante “in una notte di gelo” contro ogni sentimento di umana pietà;
4) profittando delle circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la privata difesa; in particolare, uccidendo con un coltello vittima disarmata, di sesso femminile e di giovane età, aggredita improvvisamente e a tradimento di notte, in zona boscosa e isolata, sopraffatta in auto mentre, anche per evidente disparità di forze, era ancora in assoluto dominio e totale soggezione del suo assassino.
L’ultimo giorno di vita di Lidia e le prime ipotesi investigative
Il 5 gennaio, giorno della scomparsa, Lidia era andata all’ospedale di Cittiglio a trovare l’amica Paola Bonari. Vi arriva verso le 19.15 con la Panda di famiglia, in riserva di benzina, con la quale i genitori erano da poco rientrati dalle vacanze in montagna.
Alle 20.15 Lidia lascia l’ospedale. Da questo momento si perdono le sue tracce.
La prima ipotesi investigativa degli inquirenti è quella del maniaco sessuale, infatti i carabinieri avevano individuato un molestatore seriale in zona, ma le indagini nei suoi confronti non ebbero esito positivo. (?)
Vennero effettuate indagini anche sui tre amici di Lidia che ritrovarono il suo corpo due giorni dopo, soprattutto su Roberto Bechis, che una lettera anonima pervenuta in Questura indicava quale assassino di Lidia. Ma il ragazzo aveva un alibi di ferro, quindi i sospetti su di lui vennero accantonati.
Un’ulteriore pista investigativa, percorsa nell’immediatezza del fatto, aveva riguardato Giuseppe Sotgiu, studente di Filosofia, che era stato compagno di Lidia al Liceo Cairoli di Varese ed era di CL. Insieme a Bechis e ad altri ragazzi della zona, condivideva un appartamento a Milano.
I sospetti si appuntano su di lui perché fornisce dichiarazioni contraddittorie in merito ai suoi spostamenti di quei giorni, in particolare riguardo proprio alla sera del 5 gennaio e perché omette di riferire di aver incontrato Lidia in ospedale il 3 gennaio.
Ma anche lui alla fine ha un alibi che si rivela per gli inquirenti solido, confermato da parenti ed amici.-
Il nome di Stefano Binda compare nelle indagini a partire dal 13 febbraio 1987, quando Sotgiu viene sentito per la prima volta e dice che la sera del 5 gennaio forse era andato al cinema col suo amico Stefano Binda. Viene sentito la sera del 13 febbraio: conferma di essere andato con lui al cinema, ma non la sera del 5 gennaio, poiché era ancora in vacanza a Pragelato.
Afferma inoltre di conoscere sì Lidia, ma di non vederla da tre anni.
Binda sembra essere una figura marginale nella vita di Lidia e anche per questo esce dalla scena delle indagini.
In questa indagine mancò certamente il coordinamento tra forze di Polizia e Carabinieri, che procedevano ognuno per compartimenti stagni, essendo solamente il Pubblico Ministero il collettore finale di tutte le informazioni e, a quanto pare, non era in grado o non voleva, fare 2+2…
Scartato anche il sospetto Sotgiu, gli inquirenti concentrarono le loro attenzioni su don Antonio Costabile, forse insospettiti dal fatto che il prete si fosse presentato agli inquirenti sul luogo del ritrovamento di Lidia, chiedendo di poter benedire il corpo. Don Antonio la conosceva poiché era il responsabile spirituale del gruppo scout cui Lidia apparteneva. Inoltre la lettera trovata nella borsa della giovane, indirizzata ad un amore impossibile, aveva fatto pensare che lei si riferisse proprio ad una persona sposata o ad un sacerdote.
Il prete fornisce un alibi con alcune contraddizioni e i 4 testimoni da lui indicati danno versioni imprecise, tant’è che il PM Abate, di cui poi torneremo a parlare, ordina il loro arresto in flagranza del reato di falsa testimonianza. Don Costabile era anche stato prima sottoposto ad intercettazioni telefoniche e perquisizioni, quindi arrestato, ma anche lui viene successivamente scagionato. Il decreto di archiviazione della sua posizione viene emesso dal GIP di Varese in data 16 ottobre 2014.
Troppi preti in questa storia
Gianni Spartà è considerato la memoria di Varese, il cronista, oggi in pensione, che più di ogni altro si è occupato di quella che per lui è diventata un’ossessione al punto da titolare “L’impossibile verità” il capitolo su Lidia del suo ultimo libro «Tutta un’altra storia». Spartà racconta un episodio: «La sera del ritrovamento di Lidia venne in redazione da noi alla Prealpina il sindaco ciellino Maurizio Sabatini e disse: “Questo non è un delitto come gli altri”». Cosa voleva dire? Anche il capo della mobile di allora, Giorgio Paolillo, conferma che Sabatini cercava in ogni modo di allontanare i sospetti dai ciellini. Le pressioni sulla procura e sul pm Agostino Abate, anche per i suoi modi bruschi di condurre gli interrogatori, furono fortissime. Quattro parlamentari della Dc presentarono un’interrogazione parlamentare. Abate aveva fermato per un giorno quattro preti e un laico, un dirigente di Cl, per torchiarli. Da Milano arrivarono le proteste della Curia guidata dal cardinale Carlo Maria Martini».
«Don Giussani chiese di mandare a Varese Federico Stella, il super avvocato della chiesa ambrosiana, per tutelare gli amici ciellini di Lidia. Sembravano tutti pilotati da una regia. Rispondevano solo sì, no, non lo so. E ognuno dava una versione che suonava concordata», racconta Paolillo. Lui stesso fu avvicinato da don Riccardo Pezzoni, il prevosto di Varese. In un irrituale colloquio gli consigliò di lasciar stare preti e ciellini: « Perché non indagate sulle sette sataniche?» gli domandò. La chiusura del Movimento, forse solo per paura, fu immediata. Sta di fatto che mancò la collaborazione con i magistrati. Partì anche una campagna per togliere l’inchiesta ad Abate. A guidarla il capo di Cl a Varese, Giulio Cova.
Il discorso “sette sataniche”, però, non è poi così peregrino e vedremo in seguito perché.
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