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Immagine del redattore Paola Annita Pagliari

Lidia Macchi. II parte


Come è morta Lidia?

L’autopsia dirà che la giovane è morta dissanguata e soffocata dal sangue che le ha riempito i polmoni: nessun colpo fu letale. Fu lasciata morire; una morte che sopraggiunse in una ventina di minuti, secondo il referto del medico legale.

Non mi sento di commentare, ma mi pare strano che non abbia tentato, almeno nei primissimi momenti, almeno di trascinarsi. Non pare fosse legata, né tenuta ferma. Era una ragazza atletica, in perfetta forma fisica. Se davvero è stato Binda, lei era nettamente superiore fisicamente.

LA LETTERA ANONIMA

La mattina del 12 gennaio 1987 si presenta alla Squadra Mobile Giorgio Macchi, padre di Lidia, riferisce di aver ricevuto il giorno dei funerali una lettera anonima, aperta solo il giorno successivo, l’11. E’ la famosa lettera “In morte di un’amica”, scritta in stampatello e priva di firma.


La lettera viene sottoposta ad accertamenti da parte persino della Polizia Scientifica di Roma, per il rilievo di tracce biologiche; viene pure esaminata da esperti di questioni bibliche, viene mostrata ad alcuni amici di Lidia, ma non si giunge a nulla di concreto.

Nulla di utile nemmeno dall’esame dei vestiti della vittima, dei sedili della Panda, delle formazioni pilifere rinvenute sull’auto, delle due siringhe, dei campioni di terriccio prelevati sul luogo del ritrovamento del corpo. Nulla di interesse investigativo.

Il sangue rinvenuto risultò appartenere a Lidia ed i capelli ai suoi familiari.

Nel corso di indagini più recenti alcuni reperti sono stati confrontati col profilo genetico di Giuseppe Piccolomo, senza dare esito positivo.

La complessa consulenza collegiale dei periti Carlo Previderè, genetista, Roberto Giuffrida e Pierangela Grignani, ebbe ad oggetto anche altre attività:

1)l’estrazione del DNA dalla busta contenente “In morte di un’amica”, dalla quale è stato ricavato un profilo genetico maschile.

2)l’estrazione del DNA dalla busta contenente “Una mamma che soffre”, dal quale è stato ricavato un profilo femminile.

Come si legge nella sentenza, il profilo genetico ricavato dalla prima busta (DNA maschile) è stato confrontato con “i profili genetici di Stefano Binda e di suo padre, Piergiorgio Bertoldi, Roberto Bechis, don Fabio Baroncini, Giuseppe Sotgiu, Fulvio Luzardi e don Antonio Costabile; quello femminile ricavato dalla seconda busta con i profili genetici di Maria Teresa Poli, madre di Binda, Patrizia Bianchi e Patrizia Binda con esito negativo.”

Quindi “le analisi più approfondite sui reperti, effettuate a distanza di tempo, non hanno fornito alcun elemento utile”.


La Panda venne poi dissequestrata e restituita alla famiglia, ad eccezione del sedile lato passeggero che è andato disperso (!?!).

I vetrini istologici con il liquido seminale contenente spermatozoi, dopo un viaggio in Inghilterra per tentare l’estrazione di materiale genetico, tornarono in Italia e vennero consegnati all’Ufficio Corpi di Reato del Tribunale di Varese. Sono stati distrutti nel 2000 (!?!).

Gli abiti e gli stivali indossati da Lidia vennero mandati a Roma per la ricerca di tracce biologiche appartenenti all’aggressore e sono poi andati dispersi (!?!).

“In seguito al 1988 non risulta che l’Ufficio di Procura abbia impartito istruzioni in ordine alla conservazione dei reperti o alla ricerca dei vetrini per sottoporre le tracce biologiche ad ulteriori tentativi di analisi e di individuazione del DNA; eppure la scienza si era evoluta tanto che, sin dalla fine degli anni ’90, erano state sviluppate tecniche più avanzate di indagine in questo campo, che avrebbero consentito di identificare il DNA dello sperma rinvenuto sul corpo di Lidia al fine di cristallizzarlo per sempre per una futura comparazione”, si legge laconicamente in sentenza.

LE INDAGINI INTERMEDIE e l’Unità Delitti Insoluti

SI torna a parlare di Lidia nel 2009, quando tale Daniele Zucchetto contatta l’Ufficio Volanti affermando di avere delle informazioni sull’omicidio e consegna due lettere-memoriale.

Zucchetto ha precedenti di droga e di ricovero per 6 anni presso un ospedale psichiatrico.

Il questore aggiunto, dr Sebastiano Bartolotta, va personalmente dal PM Agostino Abate chiedendo di escutere Zucchetto. Il PM lo diffida dal prendere decisioni autonome. In data 13.5.2009 il questore mette per iscritto le sue richieste di poter effettuare indagini. Il PM non risponderà mai e le indagini non verranno riaperte (!?!).

L’Unità Delitti Insoluti viene istituita nell’agosto del 2009 presso il Servizio Centrale di Polizia Scientifica, per cercare di rivedere, alla luce degli aggiornamenti della genetica forense, casi che presentano reperti suscettibili di approfondimento biologico. Tra i casi viene selezionato anche quello di Lidia.

Il SDI invia al dr Bartolotta un inventario dei reperti custoditi presso l’Servizio di Polizia Scientifica di Roma. Egli trasmette immediatamente e personalmente la relazione ad Abate, relazione nella quale sono citati i seguenti reperti:

Rep 1: scatola con 11 vetrini con liquido seminale; 2 vetrini con frammenti di tessuto dei pantaloni

Rep 2: un capello in busta di cellophane, repertato in data 07/01/1987

Rep 3: capelli genericamente rinvenuti nella Panda nella medesima data dai carabinieri

Rep 4: busta con 7 capelli rinvenuti sulla Panda il 02/11/87

Rep 5: 2 capelli rinvenuti sempre sulla Panda nella stessa data, in sede di sopralluogo

Rep 6: cellophane con foglio di carta con formazioni pilifere da sopralluogo del 02/11/87.

I reperti 2,3,4,5,6 dovrebbero essere custoditi presso gli Uffici della Scientifica di Roma, mentre la busta che avrebbe dovuto contenere i vetrini è vuota.

Sollecitato dal dr Bartolotta, il PM Abate nicchia e la richiesta di ricerca ed inoltro dei vetrini rimane priva di riscontro e, come abbiamo visto, detti vetrini sono stati distrutti in forza di un provvedimento del GIP dr. Ottavio d’Agostino in data 31 ottobre 2000, con la motivazione della necessità di liberare spazi dell’ufficio preposto alla raccolta dei beni sequestrati e confiscati.

Sta di fatto che “la distruzione dei vetrini e, ancor più le sue anomale modalità, costituiscono uno dei misteri di questo processo”, si legge nella sentenza. Ah, quindi dei misteri ci sono in questo processo. E’ bello saperlo, ma non lo è altrettanto sapere che, ciò nonostante, una persona è stata condannata all’ergastolo.

Comunque, la sparizione dei vetrini, si legge, non ha avuto influenza diretta “sulla definizione del processo”, ma la sparizione ha “indirettamente indirizzato le indagini verso la raccolta di evidenze probatorie diverse dall’analisi del DNA ricavabile dallo sperma dell’aggressore”. Prendiamo atto.


Il delitto delle mani mozzate e Piccolomo

Un’altra pista investigativa riguardò il possibile coinvolgimento di Giuseppe Piccolomo, riconosciuto colpevole del delitto di Carla Molinari, anche nel casi di Lidia. Ad aprire questa strada furono le dichiarazioni delle figlie del Piccolomo che ricordavano che il padre, per mettere loro paura, diceva di stare buone altrimenti gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Lidia, ammettendo quindi di essere stato lui ad ucciderla. La famiglia Piccolomo abitava nei pressi di Cittiglio. La Squadra Mobile di Varese trasmise le SIT delle sorelle Piccolomo alla Procura, ancora una volta nella persona del PM Abate il quale, ancora una volta, non diede il via ad alcun accertamento.



Le indagini più recenti

Si legge in sentenza: “L’elemento di novità, che darà impulso alle indagini dopo oltre 20 anni dal fatto, consiste nelle dichiarazioni rese da Patrizia Bianchi alla Polizia di Varese. La donna si era ricordata di Stefano Binda dopo aver visto la trasmissione televisiva Quarto Grado (L’ho sempre detto che guardare certe trasmissioni fa male. n.d.r.), in cui veniva citata la poesia di Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che era stata ritrovata nella borsa di Lidia Macchi; detta poesia era il cavallo di battaglia (Sarebbe interessante che i giudici avessero spiegato meglio il senso attribuito a questo modo di dire. n.d.r.) di Binda ai tempi del liceo. A distanza di qualche mese, in pieno battage mediatico sollevato dalla famiglia della vittima per smuovere le indagini, la donna crede di riconoscere la calligrafia della lettera anonima “In morte di un’amica”, pubblicata dal quotidiano “La Prealpina”. Nel leggere il giornale, Patrizia Bianchi si ricorda per la seconda volta del suo amico e compagno di liceo Stefano Binda col quale intratteneva intense relazioni cartolari.

Queste informazioni sono rimaste prive di sviluppo investigativo fino all’arrivo del dr Greco alla direzione della Squadra Mobile della Questura di Varese”.


Per dirla con un vecchio adagio: “Scopa nuova, scopa bene”.

Greco incontra allora la Bianchi per vagliarne personalmente la credibilità. Incarica in seguito l’assistente capo Silvia Nanni di escutere formalmente a SIT la teste e di acquisire le quattro cartoline in suo possesso inviatele da Binda.

Il perfetto colpevole

Greco effettua anche alcuni accertamenti su Binda ed emerge che egli ha un precedente di Polizia del 2006 per spaccio di stupefacenti; nel 2009 gli era stata applicata la sanzione amministrativa del ritiro della patente per uso di sostanze stupefacenti; inoltre risultava più volte identificato in prossimità di zone boschive della provincia di Varese, note per essere luoghi frequentati da tossici e spacciatori. Binda ha pure frequentato il liceo Cairoli di Varese, abbandonato in seguito a bocciatura, si è laureato in Filosofia alla Statale di Milano, ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Pisa; non svolge però alcuna stabile attività lavorativa, ma solo saltuarie supplenze a Milano, ha un passato importante da tossico, non è sposato e vive con mamma e sorella. Insomma: il perfetto colpevole.

Il dr Greco spulcia allora i vecchi faldoni d’indagine, mai trasmessi al suo predecessore Bartolotta, e trova (magia!) un appunto dattiloscritto di un carabiniere in cui si parlava di una telefonata anonima fatta il 9 gennaio 1987 da una donna che affermava che Lidia non era una santarellina e che frequentava dei tossicodipendenti ed era stata anche vista nei pressi del cinema “Garden” di Gavirate, in compagnia di tossici. Il luogo era frequentato anche da Binda.

Grande importanza ebbero poi anche altri scritti e simboli, stelline in particolare, trovati tra gli effetti di Lidia, che vennero ricondotti sempre a Binda.

FINE SECONDA PARTE


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