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Immagine del redattore Paola Annita Pagliari

SETT' 'NDRÈ 'NDÀ 'NDÒE , SALVÀDEGH ?



PRIMA PARTE

Ormai tutti lo chiamavano "ol Salvàdegh", il Selvatico.

Era diventato una specie di leggenda: a un misterioso essere dei boschi, forse più apparentato con le scimmie che con gli uomini, veniva concordemente attribuita la responsabilità di irruenti assalti ad ovili, a case e a conventi, per tentare virtù caprine o umane, laiche o consacrate -secondo disponibilità e necessità.

Ma di queste cose lui non si occupava più ormai da tempo, perché la pace dei sensi lo aveva ormai raggiunto; inutili erano stati i suoi tentativi di fuga.

Certo, l'ultima volta che si era rimirato in uno specchio non si era piaciuto molto: quel suo testone era troppo grosso e la fronte troppo sfuggente, quella sua mandibola era troppo sporgente in avanti e il mento mancava quasi del tutto, quelle sue arcate sopraorbitali (così si chiamavano?) erano troppo pronunciate, quei suoi zigomi erano troppo sporgenti, quel suo naso era troppo grosso e le orbite degli occhi troppo grandi, il collo sembrava quello di un toro; in compenso, il suo torace era ampio e possente. A ben guardare, quelle sue braccia erano troppo lunghe e lui aveva una certa tendenza ad appoggiarle per terra quando doveva correre; ma tutto sommato ciò non gli importava più di tanto, perché riusciva sempre a correre più svelto di chi gli correva dietro. E se era vero quello che si diceva di lui, a qualcuna doveva pur essere piaciuto: forse aveva qualche dote nascosta, che al momento buono si rivelava per quel che valeva.

Ormai non ricordava nemmeno lui quale fosse il suo vero nome; gli veniva ogni tanto alla mente che qualcuno parlava di un Salvatore, ma forse era solo una risonanza e non si riferivano propriamente a lui. Ma se era lui quel tale, chi avrebbe salvato e da quale atroce destino? Qualche intonsa giovinetta dal nubilato, liberamente scelto o malvolentieri sopportato secondo circostanza? In quest'ultimo caso, avrebbe solo fatto onore al suo nome, col sopperire del proprio ciò che altri non erano in grado di fornire; purtroppo non ricordava se proprio lui aveva commesso tutte quelle efferatezze, e a pensarci bene avrebbe voluto essere stato proprio lui colpevole di tutte.

Ma perché questo nome, che gli veniva scagliato dietro fin dai tempi della sua gioventù? Perché, quando passava per le strette viuzze del paese insieme al suo amico Matteo di Barso, i bambini li rincorrevano gridando: "gh'é ol salvàdegh e ol matté, currgh 'ndré, currgh 'ndré" ? Gli sembrava di cogliere in quella cantilena qualche velata allusione a uno stato di non perfetta rispondenza dei loro comportamenti agli standard vigenti in quei luoghi. Ma lui era buono e non raccoglieva la provocazione, perché riteneva che fosse solo frutto di scarsa educazione .

Certo, lui e il suo amico Matteo non formavano propriamente una coppia gradevole alla vista e all'olfatto: rivestiti di abiti spietatamente segnati dallo scorrere degli anni, sdruciti e rattoppati secondo necessità… , il volto ricoperto da barbe che avevano ormai dimenticato l'esistenza dei rasoi, la testa ornata da un'aureola di capelli incolti e rattorcigliati, ricettacolo di colonie di pidocchi e ricoperta da un cappellaccio troppo largo che scendeva fino al naso; le parole che si scambiavano i due amici facevano parte di un loro gergo di grugniti e borbottii, sufficienti per comunicarsi le cose essenziali ma incomprensibili a ogni altro essere umano.

Si ricordava ancora quando si erano conosciuti e l'amico si era presentato dicendo: "a-me ciàmm' Matté"; lui ben sapendo le sue abitudini solitarie gli aveva risposto: "a-te fett' ben à ciamà tt' da par tè , che ai oltar ai te ciàman' màa". L'altro si era messo a sghignazzare e non riusciva più a smettere e poi aveva smesso di ridere e aveva cominciato a piangere; non doveva avere la testa proprio a posto.

Si ricordava anche delle risate pazze che facevano quando si raccontavano la storia del vecchio curato di Margno, una delle più gettonate "storie di filera".

A quel sant'uomo non piaceva che "per il balàr e il sonàr" la gioventù dimenticasse di santificare le feste, perciò aveva pensato di far della canonica una balera e colà raccogliere chi voleva darsi alle danze e ai canti; lui suonava e gli altri ballavano, ma separatamente i giovani dalle giovani e lui sorvegliava che non si formassero coppie proibite. Il Salvàdegh però pensava: nel ballo come nella vita c'è sempre chi guida e

chi è guidato, ma è sempre l'uomo che fa da guidatore; pertanto una delle due ballerine femmine doveva fare la parte dell'uomo e così pure uno dei due ballerini maschi doveva fare la parte della donna. A parere suo e del suo amico Matte' questo appariva fuori dai canoni, seppure si faceva dentro la canonica: non conveniva lasciar fare alla natura il suo corso regolare, senza indurre la gioventù sana a strane tentazioni? E se qualcuna di quelle strane coppie si fosse piaciuta veramente, quali balli ne sarebbero derivati? C'era ben da ridere. Ma poi il curato si lamentava che "li huomini stanno nella giesia nel logho dele donne e nel tempo de li sermoni fano parole indebite": la natura il suo corso regolare lo faceva pur sempre, a suo dispetto, e la smania di contatti naturali prevaleva decisamente sui superiori valori della fede.

A ben pensarci, a parte il suo amico Matte' il Salvàdegh non era mai andato molto d'accordo con la gente del suo paese. Gli unici con cui aveva qualche superficiale frequentazione, quelli della ristretta cerchia delle serate al bar, sapevano parlare solo di donne, più parlare che fare, e quando si volevano lanciare in cieli più alti per toccare i temi della grande politica tutti possedevano la ricetta miracolosa dei mali di questo mondo; gli altri, quelli con i quali aveva ancor più rare frequentazioni, erano tutti intenti a badare ai fatti loro e si interessavano di donne quel tanto che bastava per le necessità più impellenti e di politica quel tanto che bastava per votare, alle elezioni

comunali, il candidato più "promettente" (e più "mantenente").

Lui no, però. In quel suo testone ronzavano confusamente domande su questioni che a lui apparivano ben più elevate: le solite domande sulla sua provenienza e la sua destinazione, poi il bene e il contrario del bene che non sempre era il male, il giusto e

il contrario del giusto che non sempre era l'errore, il vero e il contrario del vero che non sempre era la menzogna ... Tante altre cose a lui sembravano più importanti delle donne o della politica o del calcio, altri argomenti in cui gli amici del bar si accanivano fino a scatenare risse furibonde. Lui li osservava in silenzio perché non capiva niente di quel che dicevano, a parte le colorite bestemmie che infioravano i discorsi; talvolta era indotto a pensare che forse quelli erano esseri appartenenti a una razza poco evoluta.

Tra sé e sé però pensava: se agli antichi Statuti della Valsassina del 1388 fossero stati sempre debitamente applicati, "50 soldi di multa a chi bestemmiava Iddio e la Madonna e 40 soldi a chi bestemmiava i Santi", la valle non avrebbe mai sofferto periodi di rovina e di povertà, come negli anni del dominio spagnolo. Le occasioni non mancavano: nel XVI secolo in un vicino paese c'erano 414 abitanti e 56 osti e 414 diviso per 56 dà per risultato poco più di 7 bevitori per osteria; se è vero che "in vino veritas", le multe avrebbero dovuto fioccare numerose. In compenso c'erano 25 vedove che vivevano stentatamente: un bevitore ogni due osterie ci lasciava prematuramente la pelle dopo aver sperperato tutti i suoi soldi in blasfeme libagioni.

Il Salvàdegh non aveva mai avuto frequentazioni di amicizia neppure con il parroco; gli piacevano le sottane, ma non di quel colore. Gli piaceva andare qualche volta in chiesa: era bello sentire gente allegra che cantava, anche se non capiva le parole che dicevano; ogni tanto gli veniva da riflettere: cantavano perché erano contenti, o erano contenti perché cantavano ? Una volta aveva posto questa domanda al parroco, ma ne aveva ricevuto in cambio solo l'invito a farsi gli affari suoi, ché quell'argomento di alta teologia non era alla portata di quel suo rozzo testone; per soprammercato, si era sentito scagliare contro roventi accuse: era un incallito iconoclasta e avrebbe meritato una scomunica, se non addirittura il rogo per gli eretici. Ma forse anche il parroco aveva ricavato motivi di riflessione da quella domanda: quando il caso li portava ad incrociare i loro cammini per le vie del paese, non si capiva bene quale dei due cercasse di evitare l'altro.

Poi una volta, in una delle sue rare e casuali frequentazioni ecclesiastiche, gli era accaduto un fatto stupefacente: a un certo momento della messa, una signora accanto a lui si era voltata e gli aveva rivolto uno splendido sorriso; poi, quasi a suggellare un patto tra loro, gli aveva stretto la mano.

Convinto di avere fatto una conquista, l'aveva seguita all'uscita e le aveva fatto una timida domanda: poteva offrirsi lui per fornirle quello che essa andava cercando? Assicurava che la fornitura sarebbe stata ottima e abbondante. Ma quella si era messa a strillare come una gallina che avesse fatto un uovo quadrato; poi gli amici di lei subito accorsi dal bar (non dalla chiesa) lo avevano acchiappato e sottoposto a una generosa dose di legnate.

Ne aveva concluso che la chiesa non faceva per lui, o lui non faceva per la chiesa. Perciò aveva sempre cura di girare ben al largo dalle sottane di chiesa, quella del parroco e quelle delle parrocchiane, perché tutte si erano dimostrate poco propense ad

accettare le conclusioni dei suoi ragionamenti: l'una perché voleva tener nascosti e frenati quegli attributi che invece lui era ben propenso a mostrare e ad azionare; le altre perché non sempre erano disposte a mostrare quel che lui avrebbe voluto vedere.

Ogni tanto gli tornava alla mente qualche ricordo quasi buono , anche se confuso ,della sua breve gioventù: un tal "maestro severissimo" che "d'inverno" e "in mezzo all'acqua" aveva cercato con ammirevole pazienza di infondere in quel suo testone un

minimo di sapere. Chissà se il maestro Zeffirino Invernizzi della scuola rurale di Mezzacca, quello in verità era il suo nome e quello era il nome del paese e nei giorni di maltempo pioveva su libri e quaderni, si ricordava di quell'alunno che stentava a

capire anche le verità più ovvie: come per esempio che a questo mondo c'è sempre chi sta sopra e chi sta sotto e che purtroppo a lui era toccata in sorte la posizione più scomoda al disotto di tutti e doveva stare contento così e far bene attenzione a non

rompere troppo le scatole ai soprastanti. Riflettendoci bene, lui si era però convinto che non gli fosse andata tanto male: almeno non aveva nessuno al disotto di lui di cui doversi preoccupare. Le fatiche del maestro non erano dunque state del tutto inutili.

Chissà perché il paese sembrava volerlo respingere, il povero Salvàdegh . Eppure a lui piaceva, quel paese; era quasi disposto a considerarlo come punto di riferimento di tutto il suo tormentato percorso esistenziale, anche se non gli era chiaro il punto essenziale: era sempre andato in tondo intorno a un centro che non riusciva a individuare, oppure stava andando diritto da un alfa a un omega, insomma da un inizio a una fine?

Aveva perciò deciso, ormai stancatosi di quell'ambiente pieno di incomprensioni, di rifugiarsi sulle montagne per poter meditare in pace sui casi suoi che gli apparivano alquanto amari. Aveva trovato rifugio in una grotta e là si era rintanato, portandosi

dietro pochi ricordi e qualche attrezzo che gli serviva per ricavare dal bosco il sufficiente per sopravvivere: punte di lancia e lame ricavate lavorando certe pietre, corde per tendere trappole ricavate intrecciando certe foglie, un pezzetto di pietra tenera e rossa con cui si divertiva a disegnare tacche su un bastone , una tacca per ogni lepre catturata ma non ancora mangiata , così sapeva che non le aveva già mangiate tutte; un rudimentale arco e perfino una piccola lenza, il che gli permetteva di estendere il suo territorio di caccia per cielo, terra e mare. Il bosco era generoso con lui: gli dava castagne e funghi, mele selvatiche e more e lamponi, verze e zucche e patate, galli cedroni e lepri e ghiri, ogni tanto qualche gallina dispersa e uova che trovava nei nidi. Non se la passava male, dopo tutto.

Ogni tanto però lo prendeva la nostalgia del suo paese.

Il nome, Moggio, gli richiamava alla memoria il tempo ormai lontano della sua infanzia. Allora abitava in una casera posta in alto sulla montagna e aiutava i casari nella produzione di stracchini, prodotto apprezzato anche in luoghi lontani. Il compito a lui affidato era molto importante: poiché sulle alte cime il freddo era pungente, spesso ai casari capitava di avere un fastidioso gocciolio dal naso, perciò lui doveva avvisarli prima del momento fatale per evitare che la cagliata fosse contaminata. Doveva seguire attentamente l'evolversi della situazione, e gridare forte: "òcio a-òl mucc'!".

Era suo vezzo seguire attentamente la discesa del secreto nasale e fare previsioni sul momento del distacco; ma qualche volta i suoi calcoli sugli effetti della forza di gravità si rivelavano imprecisi, per via degli scarsi studi seguiti sui fenomeni della fisica, e il moccio precipitava improvvisamente. Quella sua mancanza gli fruttava implacabili scariche di sberle che gli rintronavano ancor più la testa; ma giungevano notizie che certi stracchini erano di gran lunga migliori degli altri e ricercati a caro prezzo dai forestieri.

Anche la valle gli piaceva: "Valsàssina". Ma secondo lui la pronuncia era sbagliata: si doveva dire "Valsassìna".

Aveva sentito dire da gente erudita che veniva da fuori (il paese forniva poco materiale di questo genere) che un certo Leonardo in tempi antichi visitando la Val Sasina aveva parlato di "un fiume che cade da un sasso altissimo": ma quale fiume non si comporta così? Quale montagna che si affaccia su una vallata ridente non è fatta di sassi?

Aveva anche sentito dire che in tempi più recenti un abate di nome Stoppani aveva parlato di grandi ghiacciai che avevano invaso i fondovalle al tempo del Grande Freddo e che, nel loro lento ritrarsi, avevano abbandonato dietro di sé enormi accumuli di sassi di ogni forma e dimensione: ma quale ghiacciaio non si comporta così? Se così fosse, quante altre valsàssine ci dovrebbero essere al mondo, nelle antiche aree glacializzate?

Invece, secondo l'interpretazione del Salvàdegh, il nome derivava da altre fonti e non si trattava propriamente di sassi ma di "sassìni": alludeva con ciò a un fatto tragico occorso nel lontano anno di grazia 1762 (o di disgrazia ?), nel paese di Primaluna. Era metà novembre a mezzogiorno e il sole splendeva finalmente in un cielo sereno, dopo il continuo scrosciare delle piogge dell'autunno; ed ecco che nella pendice del sovrastante Monte Arcella cominciò ad aprirsi una profonda crepa, creata dall'infiltrarsi delle acque nel terreno e allargata inesorabilmente dal gelo della notte, dal disgelo del giorno e dal rigelo. Gela e disgela e rigela oggi e domani e l'indomani ancora, la crepa divenne una voragine e la voragine divenne un abisso, poi giunse il momento in cui la montagna non fu più in grado di reggersi con le sue sole forze e dovette dichiarare la resa di fronte alle rivendicazioni di supremazia della forza di gravità: incominciò a scivolare verso valle e trascinò con sé le case della frazione di Gero; metà del paese fu scagliata in informe catasta sul fondo del Pioverna più in basso. Ma non era ancora finita: dalla ferita aperta nella montagna si staccò una massa enorme di sassi, che scavalcò le già abbattute case di Gero e si spinse nella sua folle corsa fino alla vicina frazione di Barcone. Il calcolo delle vittime, quando tutta la rovina fu finita, diede questo esito: più di 400 perdite tra bovini e ovini oltre a 115 corpi appartenenti alla cittadinanza umana. Il nome Gero, che forse prima indicava banalmente il freddo del versante a ombrìo, ora ricordava invece la "gera", cioè la ghiaia caduta dal monte.

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