SECONDA PARTE
C'era anche un altro evento che secondo il Salvàdegh giustificava un'interpretazione cruenta del nome della ridente valle: la strage di Nava, presso Baiedo. L'evento si era verificato nell'anno 1835.
Un altro argomento che rinforzava la tesi del Salvàdegh era questo: Lapo, il bandito della Valsassina. Queste erano dunque le idee del Salvàdegh sulla storia della sua poco ridente valle.
Ma chi era in verità quell'essere così malconsiderato da tutti, perché tutti non sapevano vedere oltre le apparenze? Da quali lombi nobili o plebei, umani o scimmieschi, traeva la sua origine il "Salvàdegh" ?
Lui non ricordava neppure chi fosse sua madre né tanto meno suo padre, ben convinto però che due genitori doveva averli come chiunque a questo mondo; costoro però, chiunque fossero, si erano liberati ben presto della sua presenza quando l'avevano inviato in casera. Ma dopo tanto tempo, non gliene importava granché e non serbava rancori.
Ogni tanto nei suoi sogni, specialmente nelle notti più tempestose, gli accadeva di vedere un piccolo asino che correva impetuosamente per le vie del paese, giungendo da un alto colle poco distante; accanto all'asino camminava uno strano personaggio dall'aria truce e bellicosa, armato di lancia e spada e carico di cianfrusaglie varie: animali di vario genere, un paiolo per la polenta , un arcolaio, una piccola cassettiera,
perfino un paio di occhiali. Il suo volto aveva qualcosa di familiare , ma non riusciva a capire meglio.
Quando in paese gli capitava di vedere un asino passare, gli piaceva camminare accanto a lui per un tratto e gli veniva quasi l'istinto di parlargli, quasi fosse suo amico o parente. Se i paesani che li vedevano passare gridavano "tel chì l'asnìtt", era quasi certo che non si riferissero a lui. Quella parola gli suscitava nei profondi meandri del cervello strane assonanze, ma il loro significato gli risultava misterioso: "l'asnìtt" diventava "lands knecht", ma che mai era ciò? Inutile era il suo arrovellarsi intorno a questa parola per lui straniera.
Ora forse riusciamo a vedere un senso in questa storia. "Lands Knecht" erano in realtà i lanzichenecchi, le truppe al comando del Conte di Collalto che nell'autunno dell'anno 1629 si erano mosse dall'Austria per invadere il Ducato di Mantova, al fine di risolvere questioni di "successione"; ecco allora spiegato il mistero dell'alto colle da cui discendeva quell'asino. I "lanzi" erano truppe mercenarie che provenivano in gran parte dalla Germania, attratte dalla speranza di ruberie e saccheggi e quant'altro, in particolare la prospettiva di poter liberamente sollazzarsi con tutte le femmine che si parassero sul loro cammino, per buona o mala ventura secondo il caso. Uno di essi
proveniva dalla lontana Valle di Neander, piccolo affluente del fiume Dussel in Renania; forse era proprio lui lo strano personaggio che appariva nei sogni del Salvàdegh .
Non si pensi che la Valle di Neander fosse il punto più oscuro del punto più oscuro del mondo; qui nel XVIII secolo era vissuto un famoso pastore, pastore di uomini e non di pecore, che rispondeva al nome di Joachim Neumann e di dilettava di scrivere poesie e inni sacri. In riconoscimento dei suoi meriti, quali che fossero, la valle fu intitolata a lui; ma prima il nome fu nobilitato col dargli una versione in greco, che suonava così: Neander, cioé Uomo Nuovo, come voleva dire Neumann in lingua originale ma in modo che pareva troppo banale.
Quella valle era destinata ad assurgere alla gloria degli altari della scienza e ad entrare a pieno titolo nella nostra storia, come avremo modo di vedere tra poco.
Ma già a questo punto possiamo cercare di fornire un senso compiuto allo svolgersi degli eventi.
Forse qualcuno di quei "lanzi" si era spinto per la Valsassìna e qui aveva trovato il suo sollazzo; forse questo sollazzo era stato deciso più che da libera scelta da necessità e la fortuna poco benigna aveva offerto solo un'occasione d'accatto; la natura aveva poi fatto il suo corso, ancor più inselvatichendo quelle che già non dovevano essere doti genetiche di prima qualità . Qualche traccia di quel poco casto connubio poteva essersi trasmessa attraverso i secoli fino al Salvàdegh, lungo le misteriose vie dell'ereditarietà.
Intanto sulla montagna gli anni passavano inesorabilmente e gli sembrava che gli inverni si facessero sempre più freddi, le prede si facevano sempre più scarse o più astute e più veloci, i funghi venivano razziati da orde di predatori sempre più scatenati, gli infusi di erbe non davano più sollievo per i suoi dolori alle ossa, salire e scendere per la montagna gli era sempre più difficile, per il fiato corto e le gambe pesanti.
Si rassegnò pertanto a fare ritorno al mondo civile, anche se non era tanto sicuro di ciò che avrebbe trovato. Scese verso il paese, ma stentò a riconoscere i vecchi luoghi: nuove case e nuove strade e nuovi negozi, troppe luci e troppi rumori e troppe facce sconosciute. Avanzò cautamente verso il piazzale della chiesa, che ancora riconosceva; poi finalmente il suo cuore si rallegrò, quando vide comparire in fondo alla via il suo vecchio amico Matte': finalmente una faccia conosciuta, più rugosa per il trascorrere degli anni ma pur sempre riconoscibile, se non altro per il lezzo che emanava.
Gli si fece incontro, felice di ritrovarlo dopo tanto tempo, farfugliando in quel loro strano gergo suoni di saluto: "mé e té Matte'"; era un vecchio gioco di parole che capivano solo loro e che li divertiva da matti. Il suo amico e compagno strizzò gli occhi già da tempo adusi a non vedere molto al dilà del naso, ebbe qualche esitazione, ma poi le vecchie memorie riaffiorarono in lui: era proprio lui, il vecchio Salvàdegh, antico sodale.
Gli si fece incontro con passi malfermi, vide il fardello che portava sulle spalle e cominciò a preoccuparsi: forse il suo amico era in partenza? Per andare a conoscere quale lontana terra, preso da quale insana curiosità, lo avrebbe lasciato là da solo, contro la malevolenza di tutti? Gli affiorò spontanea una domanda: "sett' 'ndré 'ndà 'ndòe, Salvàdegh ?".
Per il Salvàdegh il colpo fu duro, quando gli fu chiaro che il suo ritorno era stato scambiato per una partenza e che per tutti quegli anni nulla era importato di lui a nessuno, nemmeno a quello che rappresentava per lui il più stretto legame con il resto dell'umanità; ma seppe controllare la delusione e trattenne la risposta che gli affiorava spontanea dalla bocca e dal cuore: il Matte' avrebbe dovuto andare a prendere qualcosa in qualche posto, o meglio, una cosa ben precisa in un posto ben preciso che però non era il caso di dire espressamente tanto era chiaro. Lanciò un'occhiata di compassione al povero Matte' riconducendolo al rango di Matté che gli competeva, poi girò sui tacchi e si avviò per uscire dal paese, dalla valle, da tutto ciò che gli ricordava quel suo essere diverso dagli altri; sì, ma diverso anche dal Matté, il che lo racconsolava non poco.
Decise di andarsene lontano, al di là, altrove, dovunque pur di non restare un minuto di più in quei luoghi inospitali; prese la via di Cremeno e subito fuori dal paese vide aprirsi larghi spazi oltre la valle: forse là avrebbe trovato un migliore destino.
Si sarebbe accontentato di poco; qualunque cosa sarebbe stata migliore di quello che aveva avuto fino ad allora.
Non ci pensò due volte. Si avviò verso la passerella di corda che congiungeva le opposte pendici, ben deciso a rinnegare tutto il suo passato; ma ormai era troppo vecchio e stanco e il vento soffiava forte in quell'ora tarda, i suoi passi erano sempre più malfermi e le sue mani sempre più deboli per reggerlo. Proseguìcon sempre più fatica e sempre meno voglia di impegnarsi per faticare, poi venne il momento in cui decise che non gli importava più nulla di niente e che era disposto a rinnegare anche tutto il suo futuro; smise di reggersi alle corde e si lasciò abbracciare dall'ultima raffica di vento come dalla prima sua vera amica. Il volo fu lungo, ma quando ormai era quasi arrivato alla fine del percorso anche gli ultimi dubbi erano svaniti: quella era la via giusta da seguire. Addio, vecchio Salvàdegh.
Il suo corpo rimase là , tra i sassi di quella che era per tutti la ridente Valsàssina, per molti anni; gatti, cani, topi, corvi e cornacchie vi ebbero ciascuno la sua parte e anche la natura fece il suo corso su ciò che rimaneva. Poi un giorno un cercatore di funghi poco esperto, perché quella non era zona buona, passò di là e il piede gli capitò sopra quei miseri resti che ben poco avevano conservato di umano ma che certamente non erano fungini; la voce si sparse ben presto per le osterie, poi giunse alle orecchie dei cronisti locali e fin per essere captata da un anziano villeggiante che si spacciava per esperto di antropologia, etnologia e paleontologia e cose simili. Il corpo fu attentamente esaminato e alla fine fu emesso ex cathedra un parere: "il cranio apparteneva a uno di quegli uomini selvaggi, per metà folli e per metà idioti, che vivono sempre più o meno ai margini delle comunità civilizzate"; e pace all'anima sua, se mai ne aveva avuta una. L'esperto aggiunse che guardando nell'interno del cranio il calco delle circonvoluzioni cerebrali si capiva che "quell'individuo non doveva essere molto portato a servirsi dell'astrazione e dei concetti generali, né tantomeno a dominare i propri istinti". Scherzosamente fu proposto di chiamarlo "Uomo selvatico della Valsàssina".
Al sedicente esperto era però sfuggito un dettaglio, ben noto ai veri esperti di antropologia e molto importante ai fini della nostra storia.
Il fatto era questo: nell'anno 1856 un cavapietre aveva ritrovato, sul fondo di una grotta che si apriva sui fianchi della "Valle di Neander", alcune vecchie ossa dall'apparenza strana , tra cui un cranio dalle forme mai viste prima. Le ossa furono portate in un vicino paese, dove viveva un professore di scuola superiore, il sig. Fuhlrott , che era forse l'unica persona in grado di capirci qualcosa: infatti capì subito che si trattava di qualcosa di stupefacente, e ne parlò a un docente di anatomia dell'Università di Bonn, il prof. Schaafhausen, che si interessava di questioni di evoluzione; questioni che per quei tempi potevano anche essere pericolose, per quella certa parentela che si voleva porre tra le scimmie e gli uomini e che non tutti sembravano disposti ad accettare.
Quelle ossa furono presentate a un importante congresso scientifico che si svolse a Kassel nel 1857, ma qui si scatenarono subito acri polemiche tra i sostenitori dell'evoluzione e i loro avversari, che erano restii a discendere i gradini della scala zoologica: i più benpensanti erano propensi a considerare che il proprietario di quel cranio non fosse "abbastanza lontano dal normale ambito di variazione presentato dai crani delle varie razze umane per potersi considerare come un anello intermedio tra l'uomo e le scimmie antropomorfe"; insomma, per chi non voleva ritrovarsi qualche
gorillessa come trisavola o peggio qualche gorilla come marito di una trisavola, era meglio dire che "certi caratteri come la sporgenza delle arcate sopraorbitarie e la fronte bassa e sfuggente si possono ritrovare ancora come varietà individuali e accidentali negli uomini che vivono tra noi". Quelle ossa dovevano essere appartenute a qualche povero idiota rachitico, storpiato per le troppe botte ricevute in testa; insomma non si trattava di un gradino più basso nella scala su cui troneggiava l'uomo, ma solo di uno "scherzo di natura".
Alla fine però gli anti evoluzionisti furono sconfitti e quelle ossa divennero famose e pertanto occorreva trovare un nome degno per loro; si pensò allora che era l'occasione buona per celebrare con più grandi onori la gloria del pastore Neumann, perciò al possessore di quel cranio fu dato il nome di Uomo di Neanderthal, Uomo della valle dell'Uomo Nuovo. Quando si parla di ironia della sorte non si sbaglia: sembra un gioco di parole ma l'Uomo di Neanderthal fu veramente un fatto nuovo nella storia dell'antropologia, quando le teorie evoluzionistiche ottennero la vittoria sulle forze della reazione e l'ascendenza scimmiesca dell'uomo divenne un fatto accettabile anche da chi aveva tutti i quarti di nobiltà. L'umanità dei nonni era salva; per gli ottavi e i sedicesimi, cioè per i bisavoli e i trisavoli, pazienza: si fa quel che si può; se c'è stato qualche gorilla tra gli antenati, è meglio che non si sappia in giro.
Così, quando i miseri resti del Salvàdegh furono presi in esame dal nostro esperto, ultimo rappresentante degli antievoluzionisti sulla terra, non venne colta la linea di discendenza che legava il neanderthaliano e il valsassiniano. Il primo era infatti un
rappresentante di una razza certamente umana che un tempo era stata a lungo dominante ai tempi dell'antica Glaciazione Weichseliana, poi il corso degli eventi l'aveva fatta deviare in un "ramo secco" dell'evoluzione e così sia. Anche il secondo
aveva imboccato un vicolo cieco dell'esistenza. Ma entrambi erano molto meno primitivi di come sembravano e, ognuno a modo suo, avevano vissuto dei bei tempi.
Povero vecchio Salvàdegh: quel nome che ti fu affibbiato per scherzo ti apparteneva per diritto. "Homo selvaticus della Valle Sassìna", ultimo rappresentante della storia antica dell'uomo, sei tornato tra noi; ti rendiamo onore.
Dicci sinceramente: sei proprio certo che almeno uno di quei tuoi amorazzi vagabondi non sia stato allietato a tua insaputa da un erede?
In ricordo di mio papà.
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